Per un'estetica dei processi

La verità non è come il prodotto nel quale non si trova più traccia dell'utensile (Hegel)
Guy Debord, La Società dello Spettacolo, §206

Privilegiando (da) sempre la collaborazione, il workshop, la dinamica collettiva con i suoi margini di aleatorietà e contraddizione, il confronto, l'insegnamento e il trasferimento di conoscenza al prodotto finito, unza! ci ricorda che il processo, il procedimento, è sempre più interessante e socialmente importante del risultato.

Bisogna sottolineare che i lavori qui mostrati, magari poco conosciuti, sono capolavori nella loro forma finita e quindi la sfida non potrebbe essere più difficile.
E tanto più coraggio hanno avuto in questo caso unza! e gli autori e autrici coinvolti nel voler mostrare il processo che li ha prodotti, ed esporli anche al rischio di trovarli, a confronto con i frammenti nudi, brucianti e concreti che li compongono, retorici e ridondanti. Oppure di riconoscere la capacità dell'opera di costruire una complessità ulteriore.

In questa volontaria esibizione di manufatti intermedi, che nell'ottica produttiva potrebbero essere considerati "non più necessari" e per ciò destinati all'oblio e alla scomparsa, vediamo un (estremo/estremistico) desiderio di discussione, l'analisi di un processo artistico offerto nel suo farsi e disfarsi, il riconoscimento del significato di ogni gesto e ogni frammento, di cui sta a noi riconoscere il senso o l'importanza, di cui l'artista ci offre nella sua opera una possibile interpretazione/declinazione.

Lo stesso vale (parallelamente e ugualmente) per i diversi formati in pellicola qui esibiti (Super8, 16mm), oggi spesso utilizzati come feticcio per essere infine appiattiti e levigati in una forma che ne elide le specificità, e che invece qui diventano portatori di elementi concreti che possono essere rivalutati nell'opera finita: durata, materia, grana, economia (di denaro, di tempo, di sguardo).
Talvolta potremmo quasi considerare questi oggetti filmici, mostrati per la prima volta nella loro unicità e integrità/integralità, come mezzi senza fine, portatori di un loro significato intrinseco a prescindere da quello che il montaggio, l'autorialità, le esigenze produttive gli hanno (poi) assegnato.

Ogni granello di imperfezione che infiltriamo nel procedimento, ogni decostruzione che possiamo fare del prodotto finito, ogni scomposizione che possiamo rendere decifrabile nella elaborazione di un'opera, aiuta a rivendicare l'espressione come necessità e possibilità individuale (non individualistica), come ricerca contro un'idea autoritativa e ordinativa dell'arte, elaborata alla luce di un'estetica del controllo.
A smitizzare, come nel workshop di film maltrattati, la sacralità (e separatezza) dell'artista in favore di un'appropriazione collettiva e artigianale degli strumenti con cui esprimersi.

Convinti che l'espressione sia più complessa del significato. Che la condivisione sia più profonda e rivoluzionaria di qualunque intenzione.

Qui spostiamo dunque l'attenzione dall'opera allo sguardo, mostrato nel suo farsi, nella sua ricerca.

Gianmarco Torri